Nascondersi sotto la gonna della mamma è, da sempre, un atteggiamento comune nei bambini. Indipendentemente dal proprio carattere, le situazioni nuove, le persone sconosciute suscitano un certo allarme, che spinge ogni bimbo a nascondersi dietro le gambe della propria mamma, prima di decidere di buttarsi o se buttarsi, nella nuova avventura.
C’è chi questo atteggiamento lo perde, crescendo e chi invece rimane ancorato a quelle gambe con la speranza che nessuno lo noti. La tendenza è quella di condurre una vita in disparte, timorosi di esprimere la propria opinione.
Le situazioni nuove continueranno a produrre ansia, agitazione e porteranno, in modo più o meno marcato, a ridurre gli interventi al minimo indispensabile. Solo se interpellati si risponderà alle domande, non potendo nascondere un palese e colorito imbarazzo.
Dietro a questo imbarazzo c’è, però, una grande ricchezza che va vista e a cui è importante dare spazio per riconoscere la forza della riservatezza, il potere delle parole misurate e non pronunciate a sproposito, ma con una profonda riflessione di base.
La scuola sarà stato il primo campo di addestramento per il silenzio. Alle domande della maestra o del professore si avrà risposto con un filo di voce, con la speranza che solo l’interessato avrà sentito ciò che si stava cercando di dire.
“La timidezza può essere invalidante già in tenera età, in quanto limita i rapporti con i compagni, porta ad auto-limitarsi anche quando si hanno grandi idee, ma di cui si diventa gradatamente meno convinti”.
Si cresce e questa pacata riservatezza diventa un’abitudine. Si parla allora di introversione e la descrizione tipica della persona introversa è la mancanza di carisma, lo spirito remissivo, la carenza di iniziativa. E questa etichetta che era stata appiccicata già dai primi colloqui con gli insegnanti diventa un pesante fardello. Perché essere introversi in una società dove l’apparenza, la furbizia e la leadership hanno il sopravvento, implica purtroppo un inevitabile posto in ultima fila.
L’aspetto complesso da considerare è che a quell’ultima fila ci si abitua, la si riconosce come casa, ci si sente a proprio agio e a poco a poco ci si spegne dentro. In termini psicologici tutto questo implica un vissuto impegnativo da gestire, accompagnato da una serie negativa di emozioni frastornanti che non fanno che alimentare il circolo vizioso.
Sentirsi definire introversi comporta una profezia che si auto-avvera e che implica che non ci si sforzi più di conoscersi, di esplorare il proprio mondo per trovare il proprio centro, il proprio benessere, ma ci si accontenta di riconoscersi come silenziosi e trasparenti. Si concorda con ciò che dicono gli altri, senza riflettere se la loro visione sia davvero concorde con la propria, perché si ha talmente paura di cantare fuori dal coro, di non venire accettati, che si finisce per non averne una propria di opinione.
Invece se la si pulisce di tutto il giudizio legato al tipo di società in cui si vive, l’introversione è semplicemente la parte complementare dell’estroversione, è un mondo che anziché crescere all’esterno, si sviluppa da dentro. Ma quel mondo c’è e bisogna solo imparare a dargli voce, imparando a dire la propria, anche se suona fuori dal coro.
Diventa perciò importante lavorare sugli inevitabili problemi di autostima, per fare pace con la tendenza ad essere sì silenziosi, ma anche sensibili, empatici e profondi. Riconosciuta la forza dell’essere diversi, si trova così il coraggio di dire la propria, magari sussurrando, ma facendo comunque esplodere un mondo interiore che merita un palcoscenico di tutto rispetto, magari a riflettori spenti, per non violarne la riservatezza.